La parola deserto evoca estese di sabbia, silenzio senza un filo d’ombra, tempeste che cancellano ogni traccia, verdi oasi in mezzo al vuoto, corsi d’acqua strisciano di nascosto sotto terra. Il deserto è il luogo senza tempo, fa solo giorno o notte, freddo o caldo, mai presto o tardi, l’unica attesa è per il sorgere del sole e il nascere della luna, il cielo passa da azzurro limpido a nero illuminato dalle stelle. La sua gente non porta mai l’orologio al polso, le sue lancette non servono a niente, fanno solo rumore inutile. Gli appuntamenti non sono mai fissi, dipende dal tempo e della fortuna, capita di camminare giorni e giorni senza incontrare anima viva e, poi, zac, all’improvviso in lontananza si vede un punto nero muoversi lentamente, speriamo bene. Gli incontri sono sempre casuali e spesso anche benvenuti, un motivo in più per fermarsi, scambiare due chiacchiere, notizie, informazioni e saggezze che viaggiano di bocca in bocca. La buona educazione vuole che ci si presenta con il nome completo. Sovente è lungo, perché composto di sei-sette nomi primi, cioè senza virgola, come si usa qui in occidente. E’ un modo per risalire all’albero geologico e, normalmente, termina con il nome della tribù origine; i poveracci hanno il nome corto, i nobili, invece, hanno un appellativo lungo come la storia. I più umili e saggi non dicono mai il nominativo del padre, si presentano con il cognome della madre per evitare di dire, anche involontariamente, una bugia. La gente del deserto odia mentire e non ama mai dire la propria nazionalità, il deserto annulla ogni tipo di confine quindi non serve a niente arroccarsi dietro una frontiera immaginaria. A questo mondo chi non è straniero? Nel deserto tutti si sentono come a casa propria, la sua sabbia appartiene a tutti perciò a nessuno. Ognuno si sente un semplice viaggiatore, sa dove è cominciato il viaggio e spera di arrivare sano e salvo a destinazione. E quando subisce un torto, sotto braccio, all’altezza delle ascelle, porta un piccolo sasso, dà un fastidio micidiale e lo leva solo il giorno che avrà aggiustato il torto subito. Anni può durare il supplizio, non vogliono mai dimenticare. Strana gente la gente del deserto, non invecchiano mai tutti insieme, c’è sempre qualcuno che rimane giovane, più giovane degli altri con il compito di insegnare ai nuovo arrivati il modo e la maniera del buon straniero: come sopportare la solitudine, il freddo, il caldo e trovare la strada giusta per l’oasi senza confonderla con il miraggio. L’oasi non è solo il luogo del riposo e di nuove scorte di cibo e d’acqua, è una sorta di salone dove finalmente si può annusare l’altro, raccontare storie e imparare nuove usanze e lontani dialetti.
I primi viaggiatori arrivati qui erano convinti che l’Occidente fosse un’oasi, e nulla poteva far supporre il contrario. Il forestiero, il perenne viaggiatore, nonostante la fame e la stanchezza, sa ancora riconoscere il miraggio: lui ha seguito la luna e le stelle, ha ascoltato i racconti dei giovani-vecchi sopravvissuti, attraversato dune alte come montagne e tempeste di sabbia spesse come muri. Appena varcano la linea di non ritorno cercano un posto tranquillo dove montare la loro tenda, scrollare di dosso lo strato di sabbia e di fatica, mangiare in pace, dormire. Dopo qualche tempo, molti di loro si accorgono di avere sbagliato rotta, i racconti che avevano sentito non coincidono con la nuova realtà. Oramai è tardi, di ritornare subito non se ne parla neanche. Che fare, quindi? Non c’è niente di peggio che confondere il deserto con l’oasi e, deserto per deserto, decidono di rimanere, a malavoglia.
Passano gli anni e loro non si sono ancora abituati alla nuova vita della finta oasi. Nel frattempo si sono fatti una famiglia con dei figli, nuovi immigrati che non hanno mai viaggiato al di là della tangenziale. Vedere i propri figli crescere in una terra così aspra e poco amichevole rimane l’unica ragione di vita, il riscatto di un destino beffardo. Si fanno in quattro, come ogni genitore d’altronde, ma loro sono convinti di essere speciali più degli altri, questione di mentalità e di solitudine. Per fortuna i figli crescono, a volte lentamente a volte come fulmini: “Ti guardo, figlio mio, e mi pare un sogno”. I ragazzi ascoltano le storie dei loro genitori, il passato mai dimenticato, arrabbiati. A scuola imparano la cultura del paese ospite e rimangono confusi, il presente che fatica a diventare futuro, e non sanno a chi credere, ai genitori spaesati o al maestro romantico? Tutte e due parlano dello stesso posto ma in maniera completamente diversa: il primo, il genitore, quasi detesta questa oasi e non riesce a dimenticare tutto il torto che ha subito, sotto braccio porta ancora il sasso. Il maestro fa apparire questo paese come il miglior mondo possibile. E loro, i ragazzi, nel dubbio rimangono sospesi tra passato immaginato e futuro costruito per altri, il presente non gli appartiene. A casa si comportano come i loro bisnonni, fieri. Fuori, con gli amici, si fanno chiamare Gigi, Beppe e Miki, quasi si vergognano di pronunciare il loro nome per esteso, è troppo lungo e hanno paura che qualcuno si metta a sghignazzare e, nel dubbio, tacciono. Ascoltano musica moderna, frequentano locali alla moda e odiano la scuola come i loro coetanei autoctoni. A casa si comportano diversamente, un po’ per paura di offendere o po’ per rispetto verso i genitori che meritano tutto il bene di questo mondo ma a volte sono anche un peso e poi, con quell’italiano ballerino... Fuori spesso non sono educati, un po’ perché si sentono discriminati un po’ perché qualcuno li ha etichettati così, selvaggi.
La somiglianza, l’integrazione chiedono pazienza, sincerità e uguaglianza. I ragazzi saranno pazienti e forse meno sinceri, ma il compito più difficile, “l’uguaglianza”, spetta a voi padroni di casa. E, per cominciare, a volte basta poco o niente. Iniziate dal principio e non chiamateli “seconda generazione”, loro non si sentono secondi a nessuno; nemmeno nuovi immigrati, non hanno mai viaggiato, né attraversato il deserto. Siccome il loro vero nome è lungo e difficile da ricordare, per fino a loro stessi, per non rischiare di offenderli, chiuderli in un passato che non gli appartiene o in un futuro scritto sul colore della loro pelle, chiamateli semplicemente “cittadini”, ne saranno fieri e riconoscenti e non avranno alcun motivo di ereditare il sasso dai loro genitori, fa un male bestiale. Anzi, a loro volta insegneranno agli altri fratelli meticci come comportarsi in casa propria da veri cittadini, come nella bellissima storia Sufi “L'anfitrione e gli ospiti”:
“Il maestro è come l'anfitrione nella sua casa. I suoi ospiti sono coloro che cercano di studiare la Via e che non sono mai stati in una casa. Essi hanno solo una vaga idea di ciò che può essere una casa, eppure la casa esiste.
Quando gli ospiti entrano in casa e scoprono il salotto e chiedono: "Che cos'è?", viene loro risposto: "È il luogo dove ci si siede". Allora si siedono sulle sedie, ma sono solo vagamente coscienti della funzione della sedia.
L'anfitrione li intrattiene, ma essi continuano a porre domande, talvolta irrilevanti. Da buon anfitrione non li biasima per questo; per esempio, quando vogliono sapere dove e quando mangeranno. Non sanno che nessuno è solo e che in quel preciso momento altri sono impegnati a cucinare, e che esiste un'altra stanza dove si sederanno per mangiare. Sono perplessi perché non possono vedere ne il pasto ne i preparativi del pasto, e forse sono anche dubbiosi e talvolta a disagio.
Il buon anfitrione, che conosce i problemi degli ospiti, fa del suo meglio per metterli a loro agio affinché siano in grado di gustare il cibo quando arriverà. All'inizio, gli ospiti non sono in condizione di avvicinarsi al cibo.
Alcuni ospiti sono più svelti degli altri a capire e ad afferrare i rapporti tra i vari elementi della casa. Sono loro che possono comunicare ciò che sanno agli amici più lenti. In quel frangente, l'anfitrione da a ogni ospite la risposta che corrisponde alla sua capacità di percepire l'unità e la funzione della casa.
Non è sufficiente che una casa esista, che sia pronta per ricevere ospiti e che l'anfitrione sia presente. Qualcuno deve esercitare attivamente la funzione di anfitrione, affinché gli estranei, che sono gli ospiti e di cui l'anfitrione si assume la responsabilità, possano abituarsi alla casa. All'inizio, molti di loro non sono coscienti di essere ospiti o, più precisamente, di ciò che significhi la situazione di ospite: ciò che possono dare e ciò che possono ricevere da questa situazione.
L'ospite di esperienza, che ha studiato le case e l'ospitalità, a lungo andare si trova a suo agio nella condizione di ospite, e inoltre è in grado di capire meglio tutto ciò che si riferisce alle case e ai vari aspetti della vita nelle case. Finché è impegnato a capire che cos'è una casa o a cercare di ricordarsi le regole dell'etichetta, la sua attenzione è troppo presa da questi fattori per essere in grado di osservare, per esempio, la bellezza, il valore o la funzione dell'arredamento.”