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Sono nato a Nablus, per me è il posto più bello al mondo, peccato che piaccia a molti. La mia infanzia, come molti altri nella stessa condizione, è segnata dalla guerra e dai relativi annessi e connessi. Le cose che mi ricordo con più emozione sono i nostri aquiloni fatti volare nel cimitero, l’unico posto sicuro perché i morti fanno sempre paura ma non ai piccoli. Le scarpe da calcio erano di gomma made in China, erano economiche ma purtroppo i tacchetti si consumavano fra il primo e il secondo tempo. Inutile dire che il ruolo da portiere era il più ambito. Mi gratto ancora la testa come un forsennato al pensiero di uno dei più brutti ricordi: i pidocchi. Non eravamo né poveri né sporchi, la guerra era appena finita e l’acqua razionata. Il secondo ricordo mai cancellato è l’attesa del camioncino ONU per la “dose” settimanale di latte in polvere e olio di fegato di merluzzo. Ma nonostante ciò la vita con me è stata generosa ed eccomi qui.

Da ragazzo, leggendo gli autori del mio paese, pensavo che gli scrittori palestinesi non fossero di immediata comprensione. La nostra letteratura è stata condizionata da eventi tragici e troppo importanti dei quali è rimasta prigioniera. L'opera di qualche autore palestinese è arrivata in Italia, per esempio Uomini sotto il sole, di Ghassan Kanafani, che si può definire di carattere patriottico. Ci sono diversi modi di raffigurare la patria: una fidanzata, una regina, una bandiera, per Kanafani è un'immensa madre onnipresente. Infatti nel suo libro c'è un personaggio che accosta l'orecchio al terreno: "Senti, senti il suo battito", e il compagno di viaggio osserva: "Figuriamoci, sarà il tuo cuore". "Non può essere", risponde il primo, "Perché sento anche l'odore materno".

Arrivando in Italia, ho scoperto che, contrariamente a quanto sostengono molti, in questo paese la letteratura viene seguita con molta attenzione, anche le opere degli autori stranieri. Così un giorno – superato il disorientamento dell'emigrato appena sbarcato e dopo aver trovato un lavoro stabile – decisi di concedermi il lusso di scrivere. Scrivevo racconti, e soprattutto cercavo di ribaltare certi luoghi comuni sulla mia terra d'origine. Le mie “pagine sparse” circolavano in Rete (il mio primo editore) e fra i miei amici, che avevo costretto a diventare miei lettori. A questo punto tutti si sentirono in dovere di acculturarmi per bene e incominciarono a propormi i loro autori preferiti come se fossero stati dei ricostituenti: "Dino Buzzati ti sviluppa la vena surreale, Andrea Pazienza ti potenzia l'ironia". Qualcuno mi consigliava di ascoltare Paolo Conte come additivo per la poesia. Mi sentivo come un magazzino nel quale si ammucchiavano emozioni altrui. Finché un giorno incontrai il “mio” primo libro italiano. Ero nella biblioteca di una grande fabbrica del Canavese, e mi sentii folgorato dal suo titolo: La luna e i falò. Già la luna mi ispirava, mi faceva tornare in mente il mio paese. Nella cultura araba tutte le cose naturali, quindi anche i corpi celesti, avevano un'immagine molto poetica. A proposito della Luna, qualcuno aveva addirittura pensato di intentare causa alla NASA quando, nell'estate del '68, Armstrong aveva calpestato il mare di cipria che avvolge il nostro “specchio della vita”. Al mio paese c'era chi si era sentito ferito nel più profondo dei sentimenti, l'amore. I poeti arabi, ma anche gli innamorati qualsiasi, paragonavano le loro donne alla luna, quella creatura che tutti vedono ma che non possono toccare. (“Solo io l'ho avuta”). Figuriamoci uno straniero che la violenta senza neanche rendersene conto. Per tornare a La luna e i falò, sfogliandolo mi sono ritrovato come a casa. Quell'emigrante che faceva fortuna in un paese lontano (l'America) in cui non c'era nemmeno una bottiglia di vino buono, assomigliava un po' a me che in Italia non riuscivo a trovare una goccia di acqua potabile. (D'accordo che dalle mie parti, nel deserto, ce n'è poca, ma quella poca è eccezionale). Non conoscendo l'italiano, avevo incominciato a bere quella dei treni, e solo più tardi, quando riuscii a decifrare il cartellino trilingue, avevo capito perché l'acqua aveva quel gusto così orribile. E poi, anche noi, una volta, emigravamo sperando di tornare abbastanza ricchi da chiedere la mano della più bella del paese. Non solo, ma tutti quelli che tornavano erano considerati dei saggi, tutti gli si rivolgevano con deferenza e rispetto, chiedendo consigli. E solo perché avevano viaggiato. Però c'erano almeno due differenze fra me e il personaggio di Pavese: mi sono innamorato del Bel paese. Inoltre non sono ancora diventato abbastanza ricco per poter ritornare.