Il peggio sono i primi tre giorni. Quando entri nello stanzone
ti sembra di essere capitato in un buco nero. Il mondo è
distante, nessuno sente le tue urla, le tue lamentele, il tuo pianto
senza lacrime. Ovunque ombra. Le pareti sono nere. La stanza, vuota,
ha solo una sedia scomoda. Mani e piedi legati. Dopo un po', senti
dei passi. Cerchi di non pensare troppo, tanto non hai vie d'uscita.
Non è il coraggio che ti manca ma la fantasia: ti sei tanto
preparato per questo momento, ma non eri riuscito a immaginare niente
di simile: pensavi a degli uomini e ti trovi circondato da fantasmi
invisibili. Il cervello lavora troppo, è fuori controllo.
Finalmente delle voci umane. Le prime domande sono quelle di rito,
nome, cognome, eccetera. Non sai quanti sono, non riesci a vederli,
hai un fascio di luce piantato in faccia. Ceffoni a tutto andare,
anche quando pensi di aver risposto giusto. Le pinze non le vedi
ma le senti quando si avvicinano alle unghie dei piedi. E lo strappo
è così preciso, così rapido che non hai nemmeno
il tempo di urlare. Cerchi di svenire ma non ci riesci. Ti eri allenato
anche per questo. La paura è anche un cane senza denti. Senti
il suo fiato fra le gambe e ti chiedi se qualcuno glieli ha strappati,
quei denti, e perché. La risposta non si fa attendere. Basta
che tu non li convinca e l’uomo dice una parola sconosciuta.
Sembra tedesco. Lo sdentato obbedisce e con un balzo ti trovi i
tuoi coglioni nella sua bocca. Perché sei nudo, è
chiaro. E qui hai tutto il tempo di urlare e implorare perché
lui fa bene il suo mestiere e non ha nessuna intenzione di mollare
finché non arriva un nuovo ordine. Come un interruttore:
on/schiaccia i coglioni, off/li può mollare. La paura non
è tanto il cane, ma il tempo durante il quale si aspetta
l’off.