Quanta sofferenza e umiliazione ci sono nel varcare la linea della
frontiera immaginaria? Fu Charlie il più famoso della storia.
I checkpoint sono i “non luoghi” per eccellenza, di
pessima architettura e traspirano di desolazione e apatia. Non delineano
una frontiera, ma tracciano punti nevrotici all’interno della
stessa città. Non servono per controllare documenti, ma per
rendere impossibile la vita. Oramai da noi in Palestina ci sono
più checkpoint di qualunque altro posto sulla terra e con
il tempo sono divenuti una specie di cartina al tornasole che misura
il tempo e la distanza. Quanti checkpoint occorrono per arrivare
a destinazione? Quanti checkpoint dista una città da un’altra?
Anche il concetto d’attesa è radicalmente mutato. Una
persona ferma ad un checkpoint è un essere sospeso, la sua
giornata può andare avanti o tornare indietro, tutto dipende
da tanti fattori senza nessuna logica tra di loro, sono variabili
come una giornata d’autunno. I checkpoint hanno un’aria
minacciosa nonostante le piccole dimensioni più che sufficienti,
però, per contenere soldati, mitra, fari, sacchetti di sabbia
e filo spinato. Praticamente è un allungamento della prima
linea e tutta la gente in attesa là fuori è vista
come nemici da respingere il più lontano possibile. I checkpoint
non hanno niente di umano, sguardi, gesti e parole vengono scambiati
con una cattiveria sordomuta e un odio animalesco reciproco tra
chi deve perquisire e chi deve essere perquisito. Se non fosse per
il sole che spacca le pietre, il vento e la pioggia si potrebbe
benissimo pensare di essere all’inferno. Non si può
nemmeno dire che Dio è assente, ogni tanto accadano dei miracoli;
ci sono donne palestinesi che hanno partorito ai checkpoint e ci
sono donne israeliane straordinarie che hanno fondato un movimento
(“Machsom watch”) per presidiare i checkpoint monitorando
il comportamento dei soldati e cercando di aiutare la popolazione
palestinese a passare senza troppe umiliazioni. I checkpoint non
rispettano nessuna regola scritta e se ne fregano della Convenzione
di Ginevra. Per questo chi è costretto a compiere un viaggio
è consapevole dei rischi che corre, infatti non è
consigliato a vecchi, donne, bambini e deboli di cuore; se bisogna
proprio andare a trovare un parente, all’università,
a lavorare o a pregare in un’altra città è meglio
armarsi di pazienza e portare con sé cibo e medicine, l’attesa
può durare ore e non sempre va a buon fine. Tutto dipende
dalle circostanze, quelle che determinano la vittima e il carnefice.
Capita di trovare il soldato “quasi” umano e tutto si
risolve in pochi attimi, ma sei consapevole di essere stato fortunato
perché spesso non è così; sovente l’attesa
è lunga e la perquisizione è disumana: tutto viene
ribaltato compreso il corpo stesso dello sfortunato viaggiatore
e non certo per cercare chissà cosa, ma per pura violenza
psicologica. Molti cercano di aggirare i checkpoint, ma in Palestina
è diventato quasi impossibile, sono ovunque come una ragnatela:
alcuni sono fissi e molti altri nascono come i funghi dopo la pioggia.
La popolazione, stanca e rassegnata, oramai viaggia solo in caso
di necessità primarie, mai per piacere. L’occupante
israeliano in questi quarant’anni ha cambiato spesso politica
e metodi e a noi non rimane che adeguarci a suoi gusti e capricci:
da occupante militare permanente è passato ad una libertà
di movimento limitata così ogni generazione ha preso il suo
nome: generazione profughi, generazione coprifuoco, generazione
intifada, generazione kamikaze e generazione checkpoint. Ogni generazione
porta dentro di sé un’invisibile ferita sottile e profonda
diritta al cuore. Pochi gli indenni, pochi coloro che riescono ancora
a riflettere ed amare, il resto è pieno di rabbia e odio.
Nessun essere umano vorrebbe essere umiliato così tanto e
a lungo. Molti inviati e giornalisti occidentali hanno documentato
e fotografato i nostri chechpoint, ma è impossibile per chiunque
comprendere cosa proviamo dentro, impossibile fotografare la barriera
di odio e di sospetto che separa palestinesi e israeliani. Vivendo
qui in questo incantevole occidente è impossibile non rimanere
affascinati. Non per la vostra democrazia e la libertà di
espressione, sono incompiuti senza etica. Non per le vostre tavole
imbandite, un po’ di fame fa bene all’anima. Non avete
niente di cui noi dannati non possiamo fare a meno. Ad esclusione
della libertà fisica e mentale di muoversi, di viaggiare
chilometri e chilometri senza dover essere fermati e perquisiti
in continuazione, poter passare da una città all’altra
così, come se niente fosse, senza frontiere. Poter uscire
e ritornare a casa come e quando vi pare. È la massima conquista
che un essere umano possa sognare. E voi ce l’avete la libertà
di movimento che fa la differenza tra l’uomo e il non uomo.
A noi non rimane che moderare la velocità e liberare i cattivi
pensieri.