Come abbiamo potuto arrivare a tanto? Feroci con eleganza. E pensare che l’Italia ha avuto degli ottimi padri. Adriano era uno di questi. Io non l’ho mai conosciuto di persona, ma ho avuto la fortuna di far parte del suo progetto dove l’uomo era al centro di ogni cosa. Prese la fabbrica di suo padre e ne fece una comunità internazionale all’avanguardia senza trascurare mai l’aspetto sociale. Da fuori sembrava la classica fabbrica di inizio ‘900, mattoni rossi resi moderni dalle vetrate di dimensioni esagerate. Entrando si scopriva un altro mondo perduto. Adriano amava la famiglia e pretendeva molto dai suoi collaboratori così fece in modo che tutti lavorassero senza troppi pensieri. Costruì case, asili nido, colonie estive e, tra un turno e l’altro, si poteva leggere un libro nella biblioteca, assistere a dibattiti culturali, spettacoli teatrali e incontri letterari. Siccome bisognava pianificare il futuro e l’azienda doveva essere rigenerata in meglio, ogni anno veniva spedita una raccomandata a tutti i maturandi: “Ti piacerebbe far parte della nostra Comunità?”. Come se non bastasse era stato creato un istituto superiore dove venivano allevati i futuri potenziali cervelloni. E per non dimenticare chi aveva speso una vita qua dentro era stata creata un’associazione che organizzava viaggi anche internazionali, tournée, gite e pranzi sociali. Per poter entrare non si guardava in faccia nessuno, il curriculum faceva da arbitro, nessuna discriminazione o scontro. Nell’ampia mensa a due piani e quattro lati nell’ora di pranzo c’era tutto il mondo seduto a mangiare e a gustare il piacere delle chiacchiere colorate: chi passava il sale, chi l’aceto o chi il vino. Capitava di vedere l’indiano con il suo turbante, il danese ancora allegro dalla sera precedente, l’africano con il suo abito tradizionale o il mussulmano con il tappeto di preghiera. In piena guerra fredda portare quel tesserino bianco verde con la scritta nera era meglio di un passaporto diplomatico, impossibile rimanere bloccati in qualche frontiera. Qui nessuno si sentiva straniero nemmeno immigrato, tutti consapevoli di fare parte di un’idea. E come tutte le famiglie che si rispettino, capitava che qualcuno si sentisse incompreso o offeso e decidesse di andare via, di cambiare aria e partivano le scommesse: dopo quando tempo tornerà? Sei mesi o un anno al massimo e lo vedevi di ritorno, nessun castigo o penalizzazione, per carità, è umano sentire il bisogno di uscire, ma il ritorno è più che normale. Ad ogni partenza e arrivo era d’obbligo festeggiare. Alcuni non sono più ritornati perché hanno fatto un pezzo di strada nella storia; per problemi di spazio cito solo due nomi, Ottiero Ottieri e Tiziano Terzani. Questa non è mai stata una fabbrica normale, ma una scuola di vita, palestra per anima e cervello. E poi sono arrivati loro, certi manager avventurieri e politici distratti: era impossibile stare dietro ai loro capricci e a noi non è rimasto altro che passare vicino la fabbrica sforzandoci di non girare lo sguardo altrove. A molti qui si illuminano gli occhi quando si parla di Adriano Olivetti e dei bei tempi e si stringe il cuore dai ricordi. Qualcuno addirittura conserva ancora nel portafoglio il tesserino sbiadito come per dire che non è stato un sogno.