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Parole viaggianti

Nel passaggio dal niente al troppo, dallo stato d’assedio alla libertà di movimento, dal rispetto delle tradizioni e usanze alla libertà di parola, dal pensiero collettivo al concetto di individuo, tutto questo e altro ancora assomigliano molto ad una ‘rinascita’. Che con sé porta lo stesso dolore e la stessa sofferenza della separazione dei figli dalla madre. Quando molti di noi, per scelta o meno, si trovano a dovere attraversare il delicato passaggio non sempre sono in grado di comprendere fino in fondo dove porterà loro questo travaglio e nemmeno la durata del distacco. L’unica cosa che ci portiamo è la memoria, frammenti di storia, profumi, suoni e ricordi, a forma di emozioni alcune piacevoli e altre negative ma altrettanto forti. Superata la prima fase di disorientamento, appena appreso come sbarcare il lunario e trovato il tempo di prendere fiato e di avere una vita più o meno stabile, l’emigrante cerca di fare la prima cosa di cui è capace: raccontare. Inizialmente il racconto è solo orale che da noi è da sempre una tradizione tramandata da madre in figlio. In molti casi è dovuto all’analfabetismo, attenzione, però, a non confonderlo con l’ignoranza. Nessuno nasce scrittore ma poeta sì e i poeti e i raccontastorie non hanno bisogno di saper né leggere né scrivere perché possiedono il dono della parola. Si raccontano storie a volte al limite della realtà e a volte figlie delle fantasie popolari, le leggende, per denunciare un’ingiustizia subita o un amore lontano. Il raccontare storie oltre al piacere e all’emozione è anche il modo migliore per stare in compagnia. Proprio questa è la prima cosa di cui abbiamo bisogno: la compagnia perduta. Poi con il tempo diventa anche un modo per non dimenticare la strada del ritorno a casa, cioè la storia, la nostra carta di identità. Qui oramai i poeti e i raccontastorie sono sempre più emarginati ed è un peccato (il Profeta amava ripetere: “Dio ha dei tesori sotto il suo regno, e la loro chiave è sotto la lingua dei poeti”), quindi ci troviamo quasi costretti a tradurre la memoria, ma non è così facile trascriverla con le parole. Sono necessarie tecniche, trucchi e sottigliezze che solo la padronanza della nuova lingua ci può offrire. Nell’imparare la nuova lingua quasi spontaneamente si acquisiscono anche la storia e la cultura del nuovo paese, ci si contamina. Inevitabilmente avviene la seconda fase della rinascita cioè l’integrazione che non sempre porta buoni frutti. Le incomprensioni sono dietro l’angolo e spesso dovute alla presenza di troppi intermediari tra il narratore e il pubblico per non dimenticare i critici che sono i veri promotori dei libri e scopritori di nuovi fenomeni e tendenze. Alcuni di noi continuano a scrivere storie fedeli alla memoria originale rischiando o di non essere capiti o addirittura accusati di essere ancora, e per sempre, diversi; sono anche facilmente contestabili. Altri, invece, per avere una vita più facile, scrivono storie del loro paese, ma adattate ai gusti del nuovo pubblico. E spesso scrivono non per fare conoscere la loro vita come è veramente, ma come gli altri vorrebbero che fosse rischiando, però, di essere rinnegati a casa loro. Non è mai stato facile il passaggio, ma è necessario a tutti per ‘annusare’ e cercare di comprendere il diverso. Ma chi è il diverso? L’emigrante o l’autoctono? Proprio qui sta la forza della parola anche se io preferisco sempre i racconti orali agli scritti, hanno il sapore della compagnia, del viaggio perché “su questo mondo non resta nulla, se non le parole” e ancora meglio quelle dei poeti, sono visionari, pungenti e perdonabili come i matti. Lo scrittore, invece, soffre della sindrome del mediano, la solitudine, ovunque straniero anche sotto i riflettori.